Quale terapia?
Quando si parla di psicoterapia, a differenza di altri settori che si occupano di interventi per la salute delle persone e, più nello specifico, di interventi che rientrano nell’area socio-sanitaria, non si può parlare di un unico modo di fare psicoterapia. Esistono infatti, differenti modelli clinici che si propongono di fare la stessa cosa, in questo caso, la psicoterapia o meglio, esistono molte tipologie di psicoterapia. I modelli psicoterapici infatti declinano in modi differenti, sia nella forma che nel contenuto, gli interventi clinici proponendo diverse modalità per aiutare una persona, una coppia o una famiglia.
Le nostre teorie sul mondo guidano i nostri comportamenti
Queste differenze dipendono dal fatto che nel suo sviluppo la psicologia clinica, ha maturato numerosi modi di intendere i fenomeni oggetto del suo campo di intervento. Queste differenze teoriche e punti di osservazione diversi, hanno portato ad individuare ed interpretare le cause dei sintomi in molteplici modi. La teoria non è qualcosa di astratto ma è una cornice di pensiero che ci aiuta a dare senso alle cose e ai fenomeni che accadono. Ci permette di organizzare la realtà e dare così risposte che ci appaiono pertinenti o logiche. Le nostre teorie sulle cose del mondo, siano esse generali o specifiche, ci orientano e guidano le nostre azioni. Ognuno di noi ha infatti, la sua teoria del mondo e delle cose che gli accadono sia dentro che intorno. Possiamo non esserne consapevoli ma ne abbiamo comunque una anzi è possibile dire che, per ogni cosa, dalle quelle piccole, alle cose più generali, ognuno ha le sue teorie. Per questo motivo nelle scienze avere una teoria chiara, valida e convalidata è di fondamentale importanza e le scienze discutono da secoli sulle modalità di convalida e di attribuzione di veridicità di una teoria. Ogni teoria del resto è soggetta ad essere modificata o superata da una nuova.
Dalla semplicità alla complessità
Nella psicologia e in generale nelle scienze umane la faccenda si complica in quanto l’oggetto di studio non sono i fenomeni fisici o i fenomeni direttamente osservabili come ad esempio la forza di gravità o piuttosto la riproduzione cellulare ma sono comportamenti, emozioni e elaborazione dell’informazione. Si capisce bene che l’oggettività dello studio ovvero la prevedibilità dei fenomeni viene fortemente messa in discussione dall’oggetto stesso dello studio. Posso infatti, dire che, se lascio una mela da una certa altezza, la mela cadrà verso terra. Conoscendone il peso e la distanza da terra, potrò, con una certa accuratezza, prevedere quale velocità raggiungerà e dopo quanto tempo toccherà terra. Se do un calcio ad un sasso posso con una certa attendibilità prevedere che rotolerà assumendo la direzione della spinta che ho impresso. Posso addirittura prevedere, sempre in teoria, con sofisticate formule, la probabilità che andrà verso una direzione piuttosto che un’altra e posso inserire in questi calcoli anche il fattore casuale. Se il calcio è abbastanza forte il sasso rotolerà in modo irregolare verso una direzione. Studiando il terreno, il calcio, la grandezza del sasso, la forza che imprimerò nel movimento etc. etc, posso quindi prevedere con una certa probabilità dove il sasso si fermerà. Differentemente se do un calcio ad un cane (di beatsoniana memoria) non posso prevedere la reazione del cane. Potrebbe allontanarsi, accucciarsi o mordermi. C’è un aspetto di imprevedibilità non conoscibile poiché sono presenti variabili peculiari e indipendenti, in questo caso, tutte interne al cane e al contesto in cui l’azione avviene. È chiaro che l’oggetto di studio della psicologia clinica è per certi aspetti un oggetto misterioso, conoscibile solo attraverso accurate osservazioni e inferenze. Il significato di un comportamento infatti, dipende dall’attribuzione di significato che l’osservatore da a quel comportamento, indipendentemente dalla volontà del soggetto che lo compie. Se una mamma si allontana da un bambino e il bambino piange io potrò dire che il bambino è triste poiché vedo le lacrime. Un altro osservatore potrà tuttavia dire che il bambino è arrabbiato non triste. Inoltre potrebbero avere idee diverse se questo momento sia utile al bambino oppure sia dannoso. L’osservatore svolge così un ruolo importante poiché egli tende ad interpretare un fenomeno, in questo caso il pianto del bambino.
Una visione circolare
La psicologia e le scienze psicologiche per questo non possono rispettare le regole scientifiche di cartesiana memoria perché in psicologia non è valida l’idea che A produce B, o meglio non è sempre detto poiché c’è una certa quantità di variabili indipendenti e di fattori non controllabili che caratterizza la situazione come non prevedibile come lo è per i fenomeni fisici. Non si può trattare il comportamento umano come fosse un orologio, smontando le sue parti cercando di arrivare alla conoscenza delle parti più elementari. Al contrario tanto più si “semplifica” e tanto più ci si allontana dalla possibilità di comprensione. Quello che è chiaro ormai da tempo è, infatti, che nel comportamento umano i fenomeni non sono legati da una relazione di causalità lineare ma piuttosto circolare. A, influenza B e B, influenzerà a sua volta A strutturando un legame circolare di cause effetto che si influenzerà reciprocamente.
Facciamo un altro esempio prendendo in considerazione questa affermazione: se un bambino cresce in un ambiente deprivante, se viene maltrattato o ignorato diventerà un tossicodipendente. Questa affermazione non è falsa ma non è neppure vera. Infatti nelle storie dei tossicodipendenti sicuramente troviamo infanzie difficili o vissuti non elaborati, tuttavia ci sono anche molte persone che hanno avuto infanzie maltrattanti ma non sono diventate tossicodipendenti. Non vale quindi la legge che vale per la mela! La mela cadrà sempre nello stesso punto (in testa a Newton), come si svilupperà un bambino non è dato saperlo anche se conosciamo quali fattori di rischio ci sono per sviluppare psicopatologie. Quindi se una psicopatologia o un comportamento sintomatico, sono dovuti da una serie di fattori complessi e contestuali non si può applicare a tale conoscenza la metodologia che si usa in altre discipline.
In questa complessità della realtà umana e dei suoi fenomeni diversi autori, medici, ricercatori e studiosi hanno cercato comunque di mettere ordine e proporre delle lenti attraverso le quali interpretare la realtà. Le lenti cambiano in relazione a dove si pone l’accento e a cosa si da più importanza per spiegare i comportamenti e in generale i fenomeni umani come i comportamenti, le emozioni e i pensieri.
Facciamo qualche esempio che riguardano quattro grandi approcci della psicologia clinica quello psicodinamico-psicoanalitico, quello cognitivo o cognitivo comportamentale, quello sistemico relazionale e quello psichiatrico (quest’ultimo è un modello medico).
L’approccio psicodinamico
Se il clinico, attraverso la sua formazione si è convinto che i disturbi psicologici siano essi affettivi, comportamentali o psicosomatici, dipendano da un conflitto interno alla persona ovvero da istanze diverse, quindi da un conflitto tra “l’inconscio” e un “io” fragile e che questa fragilità va cercata in traumi o in dinamiche del soggetto che non ha elaborato e avvenute nel passato, allora si sarà anche convinto che per rimuoverli bisognerà far riattivare l’elaborazione e la presa di consapevolezza . Questo può essere fatto attraverso la rivisitazione e l’elaborazione del proprio passato con il tentativo terapeutico di far accedere alle parti più profonde e inconsce il soggetto, attraverso ad esempio le libere associazione, strada maestra per la pratica clinica segnata da Freud.
Quindi tali convinzioni teoriche, faranno si che il clinico abbraccerà con molta probabilità il modello psicoanalitico o psicodinamico.
L’approccio cognitivo-comportamentale
Se viceversa ritenesse che, i sintomi clinici di tipo psicologico hanno la loro origine nella sbagliata interpretazione dell’informazione o dipendano in principalmente dalla percezione della realtà e quindi, in un errato collegamento tra percezione emozione e risposta, nel momento in cui viene chiamato a proporre un percorso di cura andrà a lavorare su l’elaborazione, sulla percezione e sull’informazione orientando l’ intervento mettendo al centro l’aspetto delle cognizioni.
L’approccio sistemico-relazionale
Se invece, il nostro clinico, fosse convinto che i sintomi clinici, come possono essere particolari comportamenti alimentari, di dipendenza o sintomi quali ansia, depressione o attacchi di panico, siano sempre e comunque una forma di comunicazione di un soggetto all’interno di un sistema di relazioni significative e che rappresentano una risposta che, in qualche modo, svolge funzioni adattative e di mantenimento di un equilibrio, allora solo se comprenderà tale contesto, in cui il soggetto è inserito, e quindi, il significato che assumono tali sintomi, potrà comprendere le motivazioni alla base del comportamento e promuovere di conseguenza un cambiamento. Come clinico tenderà a dare maggiore enfasi alle relazioni che caratterizzano la vita del paziente nel qui ed ora con uno sguardo a quella che i teorici dell’attaccamento chiamano la famiglia interiorizzata. Allora questo orientamento potrà essere chiamato sistemico e relazionale.
Il modello psichiatrico
Tuttavia se il clinico, a differenza dei precedenti, è convinto che i sintomi psicologici sono determinati geneticamente o che comunque hanno la loro origine in una disregolazione chimica del nostro sistema nervoso centrale, allora con molta probabilità studierà medicina, diventerà uno psichiatra e se un paziente soffre di ansia, di depressione o di difficoltà nella gestione della rabbia gli darà dei farmaci e riterrà inutile qualsiasi psicoterapia.
La verità, superando le appartenenze di scuola è che non esiste ad oggi un approccio più efficace degli altri. Non è possibile dire che l’approccio psicoanalitico funziona di più di quello cognitivo o viceversa. Le ricerche su questo sono abbastanza chiare.
A questo riguardo, infatti, ci sono delle ricerche che evidenziano che, quello che davvero funziona in una psicoterapia, ciò che determinerà la sua efficacia non è tanto l’orientamento o il modello teorico di riferimento del terapeuta ma piuttosto la qualità della relazione terapeutica.
La capacità di empatizzare
La capacità di empatizzare, di comprendere, di confrontare ma accogliere e ciò che si costruisce nell’interazione terapeutica è quello che fa la differenza. Una terapia può essere efficace indipendentemente se pone l’attenzione sull’ elaborazione dell’ informazione come fanno i cognitivi, o attraverso l’associazione libera e l’interpretazione come fanno gli psicoanalisti o ancora lavorando sulle relazioni e sulla propria storia come fanno i sistemici.
Tutte queste modalità di intervenire, infatti, sono potenzialmente efficaci a patto che la relazione tra terapeuta e paziente assuma caratteristiche terapeutiche.
Questo spiega perché un professionista ineccepibile dal punto di vista formativo e tecnico può avere scarsi risultati terapeutici, mentre uno meno preparato a livello tecnico e teorico ha risultati migliori in stanza di terapia. Ovviamente la formazione e una buona preparazione sono indispensabili e rappresentano la base senza la quale non si va da nessuna parte ma la tecnica e la preparazione non sono di per se sufficienti. L’essere del terapeuta risulta un ingrediente indispensabile.
Scegli lo psicoterapeuta non il suo orientamento
Questo dovrebbe portare a considerare il fatto che quando si sceglie un terapeuta, ciò che è davvero importante non è tanto l’orientamento (che pure in alcuni casi è importante) ma piuttosto il terapeuta che si sceglie.
Ciò che sarà determinante infatti non sarà la tecnica ne tanto meno la proposta di ricette, ma piuttosto la capacità che avrete, voi e il vostro terapeuta, di costruire una relazione capace di far sviluppare un attaccamento sicuro e quindi, la capacità di sostenere all’interno di quella relazione gli aspetti evolutivi. Questo aspetto rende le capacità del terapeuta, la sua preparazione e la sua visione del mondo, delle parti essenziali e determinanti. Da tutto questo assume forma un’altra peculiarità della psicoterapia. Pur assumendo carattere centrale il terapeuta, il risultato non sarà tanto determinato da lui, che in effetti controllerà ben poco del processo, ma dalla qualità della relazione che paziente e terapeuta sapranno costruire. Le capacità del terapeuta sono una condizione essenziale ma non sufficiente.
Ad esempio un intervento chirurgico che avviene nelle condizioni ottimali dipenderà per buona parte dalla bravura del chirurgo che farà l’operazione, in psicologia questa regola non vale. Per dirla in un altro modo, come ho detto in un altro post, lo psicologo si differenzia dal dentista o dal medico di base: una volta che andate sarà lui a fare tutto e voi dovrete mettervi comodamente, si far per dire, sdraiati sul lettino. La psicoterapia per essere efficace necessita che la persona che ne fa richiesta sia attiva e motivata. Una buona dose di controllo infatti, pur occupando una posizione asimmetrica, è del paziente poiché lui e lui solo può decidere se introdurre evoluzioni o cambiamenti nella propria vita. Un buon terapeuta aiuta ad eliminare le cause che ostacolano questa evoluzione, perturba il sistema, sostiene la crescita e le parti evolutive della persona e sa ben rispecchiarle al paziente ma non può fare lui il lavoro al suo posto.