Cookie Policy Il modello sistemico relazionale in breve - Dott. Igor Siciliano

Questo articolo ha l’obiettivo di introdurre alla nascita del modello sistemico relazionale in ambito psicoterapeutico.

L’approccio sistemico relazionale è un modello teorico oltre che  un approccio clinico.

Ormai nato circa 60 anni fa, si caratterizza come modello relativamente giovane nell’ambito della psicologia e ha rappresentato in questi anni uno straordinario approccio capace di rivoluzionare il pensiero di molti clinici e operatori che si occupano, a diverso titolo, di disagio sociale e psichico. Negli anni 70 e 80 ha visto il suo più florido periodo e ha introdotto nella teoria e nella pratica clinica idee e prassi nuove, di cui oggi, ogni approccio tiene conto.

L’approccio sistemico relazionale può essere inteso come un vero e proprio modello culturale ovvero un modo di pensare alla psicoterapia e all’intervento clinico e al mondo delle relazioni umane. Si contrappone ad una visione psichiatrica vecchio stampo e ad una visione deterministico-meccanicistica della realtà che vuole interpretare la patologia psichica attraverso fattori innati e genetici e ridurla ad un malfunzionamento a livello neuronale tutto interno all’individuo. Propone piuttosto una visione complessa e multifattoriale della patologia e dei sintomi che vengono intesi come i segnali di una disfunzione comunicativa e relazionale all’interno di contesti specifici e un tentativo di adattamento ad uno specifico ambiente di vita (contesto). I sintomi o i comportamenti disfunzionali trovano ragione quindi non dentro l’individuo come semplice malfunzionamento endocrino ma nell’individuo come portatore di una storia specifica ed unica a cui lui si sta adattando e ne porta con se (questo si dentro di sé) i modelli interpersonali appresi e intorno all’individuo come persona inserito all’interno di un intreccio relazionale e affettivo.

Nelle sue trasformazioni e nelle sue differenti declinazioni rappresenta un punto fermo per chi si vuole occupare di disagio psichico, poiché allarga l’orizzonte della comprensione dei fenomeni psichici e comportamentali.  Le relazioni e le regole che le governano sono al centro di questo approccio insieme alla comprensione del contesto in cui le relazioni avvengono. Il contributo maggiore è rappresentato dal fatto che l’individuo non è più considerato una monade, un’entità isolata e autosufficiente e autoregolata ma piuttosto un’entità inserita in un contesto e co-protagonista di relazioni che influenza e da cui è influenzato. Si passa così da una visione lineare dei fenomeni ad una visione complessa e circolare di tali fenomeni. I sintomi non si esauriscono quindi come conflitti intrapsichici, il segno di una lotta di pulsioni contrastanti o il tentativo di trovare un equilibrio tra l’io, l’es e il super io come insegnava la prima psicoanalisi ne nell’idea di un malfunzionamento neuroendocrino come insegava la psichiatria o un’inevitabile conseguenza di geni malfunzionanti come sosteneva la genetica  ma piuttosto fenomeni vengono ora visti anche come fenomeni comunicativi e quindi relazionali e si sviluppano e si determinano all’interno di contesti specifici che hanno una storia e rappresentano sempre forme di adattamento al proprio ambiente di vita e alla propria fase di vita. Le persone sono sempre il risultato di fattori genetici, ereditari e caratteriali e fattori socioambientali. Dei fattori socioambientali si occupa la psicologia e la psicoterapia.

Per comprenderne la nascita ed il suo sviluppo, bisogna partire da un inquadramento storico culturale in cui questo approccio nasceva. Siamo negli anni 50 dello scorso secolo in America e le scienze sono guidate da un approccio di tipo meccanicistico-lineare, ovvero per la comprensione dei fenomeni, anche complessi, si adottava una metodologia che tendeva a semplificare e a parcellizzare i fenomeni nel tentativo di isolarne le cause che determinano i fenomeni oggetto di studio. Questo tipo di approccio in medicina così come in fisica aveva dato straordinari risultati e fatto approdare ad importanti scoperte. Questo modello di osservazione e di studio dei fenomeni era adottato anche in psicologia che in quel periodo era soprattutto di stampo comportamentista e per la più nota psicoanalisi di origine freudiana. I fenomeni psichici erano interpretati così con una lente che si caratterizzava per la ricerca di cause lineari ossia un fenomeno A determina e causa un fenomeno B. Il punto tuttavia, è che le scienze umane come la psicologia, la sociologia o l’antropologia mal si adattavano a delle semplificazioni così importanti dei fenomeni osservati. Un comportamento umano non risponde necessariamente alle regole lineari che invece ben si adattano a spiegare altri fenomeni naturali.

Proprio in quegli anni cominciano anche gli studi, in modo più organizzato e sistematico, dei gruppi di persone, delle istituzioni e attraverso l’antropologia si cerca di comprendere meglio i comportamenti più complessi come quelli determinati dalla cultura. Del resto proprio anche in casa della rigida psicoanalisi si affacciano e prendono forza voci che tendono a discostarsi dalle prime teorizzazioni della psicoanalisi come ad esempio la studiosa e psicoanalista Melanie Klain con la sua teoria delle relazioni oggettuali che tende a spostare il focus dell’osservazione dalle dinamiche tutte interne all’individuo alle dinamiche relazionali nella prima fase di vita del neonato ritenute determinanti per lo sviluppo successivo. Sempre in quegli anni gli studi dell’etologo Lorenz contribuiscono a guardare al mondo animale con attenzione per comprendere alcuni fenomeni comuni tra le diverse specie. In particolare il concetto di imprinting stimolerà la ricerca in ambito della prima infanzia e porterà J. Bolwby insieme ad altri contributi propri della seconda psicoanalisi, a teorizzare la teoria dell’attaccamento.

Proprio in questo contesto di grande fermento scientifico e culturale, mossi dall’insoddisfazione per un modello clinico che sembrava non essere più in grado di spiegare i fenomeni che si intendeva studiare, si guarda con interesse ad altri modelli. La teoria dei sistemi messa appunta da L. von Bertalanffy sembra dare delle basi solide proprio a chi era alla ricerca di un modello teorico capace di tenere conto della complessità dei fenomeni. Per spiegare il funzionamento di qualcosa non è sufficiente infatti comprendere il funzionamento di una singola parte ma è necessario comprendere come la singola parte è inserita all’interno di un sistema specifico e il funzionamento di quel sistema specifico renderà ragione del funzionamento della singola parte.

Come tutto questo influenza la pratica clinica degli psicoterapeuti del tempo? In molti si rendevano conto che la psicoanalisi classica non era capace di rendere conto di alcuni tipi di patologie e ad ogni modo, il modello clinico mal si adattava ad essere utilizzato nelle situazioni di pazienti con alcune patologie e ritenuti più disfunzionali. Un po’ per caso alcuni di questi clinici cominciarono ad organizzare sedute congiunte con i familiari dei pazienti: tipicamente la madre. Improvvisamente quei comportamenti ritenuti bizzarri e senza senso dei pazienti, in presenza di un familiare significativo cominciarono ad assumere senso e giustificazione della loro presenza. Questo segnò l’inizio di una pratica clinica seguita da diversi clinici. Cominciò a farsi strada l’idea di “paziente designato” ovvero il paziente è il portatore del sintomo che è espressione di un sistema disfunzionale. In molti erano quindi, alla ricerca di nuove ipotesi eziopatogenetiche capaci di rendere conto dei fenomeni osservati. Un gruppo di studiosi si ritrova in attività di studio e di ricerca a Palo Alto. Il gruppo è guidato da Gregori Beatson. Dal gruppo di Palo Alto uscirono ipotesi e modelli di lavoro che influenzeranno la pratica clinica negli anni seguenti. In particolare il concetto di doppio legame e la comunicazione schizofrenogena, le regole che governano l’interazione umana ovvero la comunicazione e gli assiomi che ne caratterizzano le regole. Sono molti i semi che faranno germogliare diversi stili e approcci terapeutici con la comune base che ogni sintomo va inserito all’interno di un contesto e che le persone si influenzano reciprocamente in un modo circolare, per cui per comprendere i comportamenti compresi quelli disfunzionali, occorre sempre tenere presente il contesto in cui questi avvengono sia per la loro origine che per il loro mantenimento. Il sintomo è in quest’ottica sempre una comunicazione e quindi un’azione interpersonale. Sono molti i pionieri della terapia sistemico relazionale che porteranno nuove idee e nuove prassi cliniche in quegli anni e ognuno declina queste nuove ipotesi teoriche nella pratica clinica in modo personale. Sicuramente vale la pena citare M. Bowen che è stato tra i primi a lavorare in termini familiari e trigenarazionali. Introduce il lavoro con il genogramma e l’idea che il malfunzionamento si sviluppi nel passaggio di diverse generazioni e dipende dal grado di differenziazione o indifferenziazione dell’io familiare. Proprio con i suoli allievi si pone l’obiettivo di aiutarli a differenziarsi e de triangolarsi dalle loro relazioni significative.

J Haley che faceva parte del gruppo di Palo Alto, mette appunto quella che verrà definita la terapia strategica familiare. Le relazioni sono viste come equilibri che si basano sulla distribuzione di potere e lotte di potere. La patologia è presente quando non vi è accordo su chi ha più o meno potere in dinamiche relazionali rigide destinate quindi ad un escaletion o alla patologia. La comunicazione strategica sarà al centro dei suoi interventi. Inoltre, sicuramente per la sua straordinaria produzione clinica e letteraria, va citato Salvador Minuchin che può essere ritenuto uno straordinario interprete del modello sistemico relazionale. Propone quello che verrà chiamato l’ approccio strutturale. In presenza di una disfunzione in un membro della famiglia è sempre presente una disfunzione strutturale, intesa come organizzazione gerarchica generazionale caratterizzata da confini e compiti evolutivi. Lavorare per ripristinare una struttura più funzionale è l’obiettivo dello psicoterapeuta ad orientamento strutturale.

Negli anni che sono trascorsi il modello sistemico relazionale ha attraversato numerose fasi non sempre scorrevoli e lineari. Da un approccio individuale si è passati ad un approccio familiare di tipo purista per poi tornare negli ultimi anni a dare nuovamente importanza alla storia e ai singoli e di conseguenza al setting individuale ma questa volta all’interno di una cornice teorica di tipo sistemico relazionale. Sono molti a mio avviso i meriti di questo modello teorico tra cui quello di aver messo al centro dell’attenzione non più l’individuo come monade ma le relazioni all’interno delle quali l’individuo sviluppa e vive. Comprendere che i fenomeni umani e oggetto della pratica clinica sono sempre soggetti a punteggiature differenti e quindi il clinico deve assumere sempre una visione circolare della realtà che osserva. La grande eredità della teoria dei sistemi inoltre  è che ci ha insegnato a ragionare in termini  di complessità.