Cookie Policy Diagnosi dei disturbi di personalità - Dott. Igor Siciliano

Lo scorso Venerdì 9 e sabato 10 novembre 2018, si è tenuto il workshop organizzato dall’ Istituto Dedalus dal titolo: La diagnosi dei disturbi di personalità attraverso la SCID-5-PD.

Insieme ad altri cinque colleghi: la Dott.ssa Rita Accettura, la Dott.ssa Angela Viscosi, il dott. Francesco Scaccia e il dott. Francesco Colacicco, abbiamo tenuto due giornate intense e spero interessanti, su argomenti come la costruzione della personalità, i disturbi della personalità, l’influenza che la famiglia ha nella costruzione della personalità e la diagnosi attraverso la SCID-5 PD e SPQ.

Come psicoterapeuti siamo interessati alla diagnosi individuale come momento conoscitivo e come un’insieme di informazioni che permettono un maggiore dettaglio per comprendere il funzionamento e gli schemi comportamentali della persona che abbiamo in carico.

Una quindicina di anni fa sapere che avrei tenuto una lezione sul tema dei disturbi di personalità e sull’utilizzo di uno strumento per fare diagnosi mi avrebbe sorpreso non poco. Avendo svolto e collaborando tutt’ora con una scuola ad orientamento sistemico relazionale, infatti, la questione della diagnosi individuale e i discorsi sui disturbi di personalità erano viste sicuramente con diffidenza e sospetto. L’approccio sistemico nasce infatti come reazione ad una insoddisfazione forte e, evidentemente motivata, verso quegli approcci che tendevano a vedere l’individuo e le su dinamiche intrapsichiche l’oggetto privilegiato dell’intervento psicologico.

In questo senso l’approccio sistemico relazionale ha rappresentato da una parte una rottura dei modelli teorici allora presenti e dall’altra una forte innovazione nel campo clinico. Ritengo che i riferimenti teorici e culturali, l’appartenenza di scuola e il bisogno di costruire pratiche e metodologie proprie ha fatto si che si prediligesse una certa chiusura, cosa del resto che ha caratterizzato ogni orientamento, invece che privilegiare un atteggiamento che vedesse nelle differenze una opportunità di contaminazione e di condivisione di concetti e prassi comunque utili. Tra le scuole sistemiche, in Italia quella di Milano ha rappresentato una certa eccezione mantenendo uno sguardo sempre attento anche alle dinamiche intrapsichiche oltre che a quelle relazionali e sistemiche.

Comunque, ad oggi che è meno forte l’esigenza di un’appartenenza di scuola e essendo cambiati anche molto i contesti in cui gli psicoterapeuti si trovano a lavorare, è possibile in modo più semplice proporre integrazioni che non significhino una perdita o uno scostamento dai propri riferimenti teorici ma piuttosto un arricchimento e un’integrazione. Del resto, sono molti se non tutti, gli psicologi ad orientamento sistemico che svolgono terapie individuali così come sono molti i terapeuti individuali che fanno terapia di coppia o terapeuti formati in approcci clinici prevalentemente individuali che fanno convocazioni familiari.

Il ragionamento che mi guida nell’affrontare questo tema è che non sono interessato alla diagnosi come strumento di incasellamento delle persone all’interno delle categorie nosografiche dei vari manuali diagnostici. Non mi occupo di stilare certificati né di attribuire etichette. Mi spiego meglio. La questione della diagnosi in psicologia clinica è argomento molto dibattuto. Si sono moltiplicati il numero di strumenti utili per fare diagnosi sulla personalità almeno da quando dagli anni 80 è aumentato l’interesse sullo studio e la ricerca nel campo dei disturbi della personalità. Così parallelamente sono aumentati anche i farmaci psicoattivi che vengono impiegati per la cura dei diversi disturbi della personalità. A tale proposito la punteggiatura della lettura del fenomeno potrebbe essere invertita.

Le percentuali oggi ci dicono che circa una persona su 10 presenta un disturbo della personalità inteso come un comportamento male adattivo di tipo pervasivo, di lunga durata e che compromette molte aree della vita della persona e che ha un’influenza altrettanto negativa per i familiari o le persone vicine. Sono scarse le ricerche in Italia ma uno studio di Lingiardi del 2001 parlava di una percentuale di incidenza di un disturbo di personalità nella popolazione italiana pari al 10-15%. Altre ricerche evidenziano grosso modo le stesse stime.

Ritengo che la questione sulla quale vale la pena riflettere è l’utilizzo che come clinici e terapeuti facciamo di una diagnosi. Sapere che una persona presenta un disturbo di personalità ci dice infatti molto ma è anche vero che non ci dice nulla di utile a meno che non utilizzeremo questa informazione in modo appunto, utile per il processo terapeutico.  Del resto, fare una diagnosi di una patologia senza una cura può essere assai dannoso scriveva Winnicott.

La medicina e la psichiatria purtroppo sono ancora in larga parte convinte che i farmaci siano la risposta e la cura da privilegiare. Spesso il disturbo di personalità viene considerato come un mal funzionamento neuroendocrino della persona e i fattori genetici sono quelli più importanti e che i farmaci sono la strada da preferire poiché hanno l’obiettivo di regolare quel malfunzionamento. Un po’ come se il disturbo spiegasse sé stesso. Del resto, il modo di affrontare la sofferenza umana o se si preferisce una psicopatologia dipenderà dalla teoria a cui faccio riferimento. Ritengo che se vado a correre sicuramente tenderò a sudare, ma il sudore non si può certo dire che sia causa del mio correre! È ormai evidente come molti studi evidenziano che la personalità si strutturi in larga misura in famiglia e nelle prime esperienze di attaccamento della persona. In realtà sono molti i fattori che concorrono alla costruzione di una personalità come quelli genetici e quelli caratteriali, ma altrettanto importanti sono i fattori psicosociali. La Benjamin propone una stima pari al 50%. Come psicologi e psicoterapeuti dobbiamo tenere conto dei fattori genetici e caratteriali ma lavoriamo sui fattori psicosociali. È probabile che gli aspetti genetici influenzeranno il tipo di disturbo che potenzialmente potrei sviluppare ma gli aspetti psicosociali determineranno il suo concretizzarsi o meno. L’idea di chi scrive, idea costruita ascoltando e studiando esperti del settore, il disturbo di personalità ha importanti aspetti relazionali e di contesto e è da considerarsi come processo che si comincia a costruire nelle prime fasi dell’infanzia e si struttura in modo più stabile in adolescenza e nella prima età adulta attraverso un continuo tentativo di adattamento che la persona fa nel proprio contesto di vita.

I disturbi di personalità hanno fortemente a che fare con i processi di introiezione di cui parlò Bowlby già negli anni 60 dello scorso secolo. Ovvero modalità e schemi comportamentali e relazionali che noi copiamo e immagazziniamo dalle nostre figure di attaccamento. Questi meccanismi sono innati e hanno un significato per la nostra sopravvivenza, per la sopravvivenza della nostra specie e per tali ragioni guidano meccanismi profondi della nostra personalità. Del resto i terapeuti che attraverso i loro modelli tentano attraverso il processo terapeutico di modificare in profondità gli schemi di funzionamento della persona che presenta un disturbo di personalità sono convinti e, credo a ragione, che gli schemi di personalità possono modificarsi, anche se non è facile, attraverso un lavoro di ricostruzione, oltre che della propria storia, dalla relazione sperimentata proprio durante la terapia producendo una nuova introiezione una nuova forma di attaccamento e introiezione.

Troppo spesso le diagnosi vengono utilizzate per dare un’etichetta che ha tutta l’evidenza di essere utile solo al professionista che la potrà utilizzare per rassicurarsi o utilizzarla per far fronte ai tanti fallimenti che spesso si incontrano quando si lavora con questo particolare gruppo di pazienti.

Bisognerebbe del resto avere bene a mente come sostenuto da numerosi autori e come spiegato bene nel libro del prof. L. Cancrini l’oceano borderline che ogni persona in diverse fasi della propria vita funziona in modi differenti in relazione ai contesti in cui si trova a vivere e in relazione agli eventi che caratterizzano quel particolare momento. Ognuno di noi potenzialmente può funzionare ad un livello borderline o avere una crisi psicotica se messo in condizioni particolari. La diagnosi è uno concetto molto potente che corre il rischio di far perdere di vista la persona che a quella diagnosi è stata sottoposta. Ovvero io vedrò il narcisista e non vedrò più un tale, il paziente, che è incapace di provare empatia e che con molta probabilità è stato cresciuto in uno specifico modo o in un contesto che è stato incapace di valorizzarlo come persona in modo da farlo sentire ignorato per ciò che davvero era. Vedrò una persona insopportabilmente centrata su di sé e non una persona che teme la perdita di controllo e sente il bisogno di sentirsi amato e ammirato e in assenza di questo precipita nel panico e nella disperazione. Se lavoro con una persona con una diagnosi di borderline sarò tentato di vedere il paziente come una persona particolarmente problematica e rischio di dimenticare che la sofferenza e i comportamenti di quella persona sono dettati molto probabilmente dalla paura di essere abbandonata ed ignorata e che per questo sarà intenta a cercare di controllare(mi) e si arrabbierà quando non riuscirà a farlo. Insomma le diagnosi a mio avviso sono utili poiché ci permettono di avere presenti le ragioni sottostanti i comportamenti e gli schemi tipici di particolari pazienti. La Benjamin a questo proposito parla di una melodia specifica di ogni disturbo. Una base musicale che è simile per ogni categoria. Può cambiare la scala dei toni, il modo di suonarla ma la melodia è sempre la stessa. Saper fare diagnosi permette di riconoscere in modo più veloce proprio la melodia e quindi orientarsi anche nel processo terapeutico. Lo stesso discorso vale anche per i tratti di personalità e non solo per i disturbi di personalità.

La SCID 5 PD e il questionario SPQ è uno strumento molto utile e di semplice utilizzo anche se affatto banale.

Nasce dalla revisione della SCID II e rispecchia il cambiamento avvenuto nella pubblicazione del DSM 5. Infatti scompare il riferimento agli assi (II) e inoltre vengono tolti il disturbo passivo aggressivo e il disturbo di personalità depressivo non più presenti nell’ultimo manuale diagnostico.

Come nella precedente edizione la professoressa Benjamin ha contribuito alla formulazione delle domande affinché queste, rispecchiassero maggiormente gli stati d’animo delle persone intervistate.  L’intervista completa, ovvero la SCID 5 PD, è composta da 106 domande più 5 per la diagnosi del disturbo non altrimenti specificato.  La sua somministrazione varia per il tempo necessario in relazione al paziente e alla situazione.

La SCID 5 SPQ è il questionario che si somministra in alternativa alla SCID 5 PD. Ha il vantaggio di essere più veloce tanto che in media un paziente impiega 20 minuti. È composto da domande con una logica binaria alle quali il paziente risponderà si o no. 

La SCID essendo uno strumento semi strutturato e avendo un’intervista è soggetta a una certa influenza dell’intervistatore e quindi l’esperienza e l’esercizio affinano la capacità di usare lo strumento.

Tra i diversi strumenti che ho utilizzato trovo la SCID 5 PD molto utile e versatile. Oltre infatti, che a permettere una diagnosi categoriale, permette una diagnosi dimensionale e quindi può aiutare ad individuare i tratti più significativi per la persona che stiamo intervistando. Inoltre si possono somministrare solo parti che ci interessano ovvero indagare solo alcuni disturbi; ad esempio mi può capitare di volere capire meglio quanto siano significativi alcuni tratti di una persona e decidere cosi di somministrare solo parte dell’intervista PD, permettendomi così di confermare o confutare le mie ipotesi e farmi lavorare in modo più aderente alla situazione specifica.

Questo post non vuole essere esaustivo del funzionamento di uno strumento che se pur di semplice utilizzo non è affatto banale. Vuole essere così una semplice condivisione di un lavoro svolto e una riflessione sull’utilizzo di strumenti diagnostici.