Ancora una volta non si può che parlare di covid19 e proporre una riflessione su come la situazione che stiamo vivendo impatta sulle nostre vite e sulla nostra salute ovviamente, non solo quella fisica ma anche emotiva e psicologica.
Siamo giunti infatti, ormai a più di un mese dall’annuncio del lockdown.
Quindici giorni di chiusura totale, avevano annunciato; di blocco degli spostamenti e di qualunque attività se non strettamente necessaria. I quindici giorni sono diventati un mese e poi quasi due e forse chissà, vedremo.
Se ci guardiamo indietro e ripensiamo a qualche settimana fa, quello che sta accadendo non può che apparirci incredibile, inverosimile. Se torniamo con la mente solo a febbraio scorso è davvero difficile non avere una sensazione di smarrimento. In quel periodo a carnevale ad esempio, stavamo festeggiando in
maschera in qualche locale o a casa di amici e stavamo tutti in strada a vedere i carri sfilare nelle nostre città. Giocavamo con i nostri figli nei giardini, nei parchi o passeggiavamo tranquillamente con loro e le nostre famiglie. Cercavamo di organizzare un aperitivo o una cena con amici che magari non vedevamo da un po’. Pensavamo a come organizzare le nostre ferie indecisi se scegliere località di mare o montagna. Presi dalla
frenesia e dalla mancanza di tempo, sempre di corsa sempre con il fiatone. Sembra un’altra era!
Invece anche da noi è arrivato il covid19. Tutto si è fermato, tutto è diventato più silenzioso.
Della sua esistenza ne eravamo a conoscenza. C’era anche prima, ma era lontano. In Cina. Come se in fondo, nonostante la globalizzazione, nonostante le nostre super tecnologie non si è modificata davvero in profondità la percezione delle distanze o non sempre siamo capaci di tenerne conto. La Cina forse, pensavamo “è lontana”, è un altro mondo. Un pensiero recondito, quasi indicibile ci accompagnava: noi non siamo cinesi, tutto questo non ci toccherà! Chissà forse questa sensazione di sicurezza, di invincibilità tipica di una società narcisista come quella europea e occidentale, ci ha fatto pensare che noi non saremmo stati toccati da questi eventi così sconvolgenti o forse ad attivarsi è stato un inconsapevole meccanismo di negazione collettiva funzionale ad evitare, allontanare e a difendersi dal pericolo e dalla minaccia di contaminazione. Vedevamo le immagini scorrere durante i telegiornali, di cinesi con mascherine, assistevamo increduli e ironici a droni alzarsi sulle teste delle persone e intimargli di di tornare in casa. Guardavamo sorpresi e critici un vecchietto cinese correre dentro casa e rifugiarsi lì dopo essere stato ammonito da un agente di polizia. Guardavamo come spettatori passivi. Tutto era lontano, non ci apparteneva, non eravamo noi. Noi non siamo cinesi. Ciò che stava accadendo sembrava riguardare un altro e un altrove remoti. Eppure è bastato davvero poco. E L’ Altro è arrivato anche da noi , ha invaso il nostro spazio vitale. Abbiamo scoperto che, in questo strano mondo, le distanze possono accorciarsi rapidamente ed improvvisamente, abbiamo scoperto come l’Altro, in un attimo, si possa trasformare in noi: è il nostro vicino, il nostro amico, il nostro compagno, nostro figlio, un nostro genitore. Abbiamo scoperto che l’ Altro non era il cinese, il coreano o il giapponese ma anche noi facevamo parte dell’Altro . E’ bastato davvero poco. Un aereo con un passeggero invisibile, microscopico, ma potente. Così potente da far inceppare un ingranaggio complesso come quello delle società moderne. Così potente da abbattere in un solo istante tutte le nostre divisioni, i nostri egoismi le nostre differenze. Così potente da farci improvvisamente essere tutti uomini con un unico, seppur differente, sistema immunitario. Così potente da riportarci ad essere solo una piccola parte di questo pianeta e tutti soggetti alla suprema legge della natura.
Allora uno, dieci, cento o mille traghettatori inconsapevoli di una minuscola, microscopica forma di vita.
Un’ aereo è atterrato in eruropa, una nave ha attraccato in un porto, un treno è arrivato in stazione. Forse in Germania forse in Italia, ma cosa importa; è entrato silenziosamente a far parte delle nostre case, delle nostre scuole, dei nostri ospedali e quando finalmente lo abbiamo capito era troppo tardi. Come i greci entrarono silenziosi nelle mura di troia cosi il covid 19 è entrato in Europa. Ancora una volta, come allora per i troiani, la presunzione della nostra invincibilità, della nostra forza ci ha tradito e ci ha fatto cadere in errore. Neppure quando il primo caso ci è stato comunicato attraverso l’edizione serale del telegiornale abbiamo immaginato quello che sarebbe stato da lì a poco. Eppure avevamo tutte le informazioni necessarie. Ben prima del primo caso diagnosticato, intorno al 31 di gennaio, il governo aveva dato l’allarme ma tutto sembra procedere nella normalità. Il nostro bisogno di sentirci in grado di controllare le cose ci ha reso difficile vedere e agire di conseguenza in modo tempestivo. Il resto della storia è cronaca e siamo ad oggi ad oltre un mese di chiusura totale.
È davvero meglio far finta di nulla? Il tentativo di Negazione
Per rendersi conto di quanto questo meccanismo, la capacità di negazione collettiva, è potente e irrazionale basta vedere i nostri vicini francesi, inglesi o spagnoli. Quando l’Italia era già in ginocchio, quando le corsie di ospedale erano già piene di persone con le polmoniti, quando già le strade erano invase da autoambulanze, quando gli obitori cominciavano già ad essere pieni, gli altri paesi a noi confinanti, pensavano che per loro sarebbe stato diverso.
Non erano italiani, gli italiani erano altro da loro proprio come lo erano stati i cinesi per noi.
Il tentativo collettivo di non rendersi conto fino in fondo di ciò che stava accadendo, di negare la realtà fa comprendere la portata dell’evento traumatico che stiamo vivendo. In psicologia il meccanismo di negazione è un meccanismo difensivo psichico ben conosciuto, potente e perlopiù adattivo nel suo tentativo protettivo ma anche disfunzionale poiché non permette la possibilità di fronteggiare il problema che appunto perché appunto viene negato. È il risultato del tentativo che la mente in modo inconsapevole tende a fare, per evitare di venire a contatto con contenuti troppo dolorosi o stressanti. Contenuti che sente troppo pericolosi e che sente di non poter fronteggiare. In letteratura clinica il meccanismo di difesa della negazione è ben conosciuto nelle situazioni traumatiche.
Così, proprio di questo meccanismo sembra essere stata caratterizzata, e in parte lo è tutt’ora, la prima fase della quarantena e dell’isolamento.
Cambiano le nostre vite
Siamo esseri sociali, la relazionalità non è solo alla base delle nostre culture, delle nostre forme organizzative e sociali ma è alla base della nostra stessa sopravvivenza.
L’essere umano è un essere essenzialmente sociale. Da solo non sopravviverebbe. Questo è sostenuto da una predisposizione biologica e ha a che fare con l’evoluzione. Il nostro sistema nervoso, la nostra biologia, il nostro istinto e quindi il nostro corredo genetico ci spingono a stare in prossimità con gli altri. È un fatto naturale, innato, istintivo. Oggi, paradossalmente, ci troviamo a dover frenare questa nostra propensione, questa nostra istintività. Oggi ci dobbiamo confrontare con il paradosso che proprio ciò che ci ha fatto sopravvivere ed evolvere rappresenta un fattore di pericolo. La prossimità è diventata pericolosa, per noi , per le nostre persone care e per la nostra specie. Risolvere questo paradosso ha a che fare anche con la nostra salute psichica. Perché il lockdown, la chiusura totale delle attività e della possibilità di girare liberamente non è evidentemente solo una limitazione fisica ed organizzativa ma rischia di diventare un isolamento psichico.
Per queste ragioni è bene comprendere che ciò che dobbiamo portare avanti è un distanziamento fisico ma non sociale. Dobbiamo riuscire a proteggerci restando in contatto con l’altro, con gli altri, in collegamento, in relazione.
Ritengo per questo che le parole comunemente utilizzate in questo periodo non siano corrette. Si continua a parlare infatti, della necessità di mantenere un distanziamento sociale per indicare la necessità di stare lontani gli uni dagli
altri, con l’obiettivo di contenere e arginare la diffusione del contagio. Le parole tuttavia sono importanti perché danno significato alle cose, orientano il pensiero e guidano le nostre azioni. A mio avviso si dovrebbe parlare di distanziamento fisico e non sociale. Con il primo termine, quello fisico, è intuitivo comprendere che ciò che bisogna fare è cercare di stare lontano fisicamente dalle altre persone. Allora starò ad un paio di metri in fila al negozio, non stringerò mani ne darò tanto meno abbracci. Se incontro qualcuno manterrò una distanza fisica e indosserò mascherina e guanti. Non credo invece sia corretto parlare di distanziamento sociale anzi ciò che noi dovremmo tentare di fare è proprio non distanziarci socialmente. Questo è il momento della condivisione e della necessità di sentirci prossimi gli uni agli altri. Il coronavirus sicuramente ha il merito di aver fatto riemergere in tutta l’umanità un sentimento di appartenenza, di unione e di condivisione, un sentimento di solidarietà. Oggi siamo tutti cinesi, spagnoli, francesi o inglesi. Oggi più che mai siamo tutti italiani.
Stare a casa significa proteggere gli altri e non solo se stessi. Proteggo me stesso e facendolo proteggo gli altri. È un messaggio potente, ci rende davvero umani, ci fa appartenere ad un comune destino.
Certo neppure tutto questo servirà a far sparire egoismi, nazionalismi ecc. ecc, tuttavia le persone si sentono oggi più consapevoli di appartenere ad un unico ecosistema. Allora il distanziamento sociale è forse l’ultima delle cose che dovremmo fare. La questione è riuscire ad adattarci a una socialità diversa. Mai più che in questo periodo le persone sentono l’esigenza di condividere, combattono la solitudine e sentono l’importanza degli altri.
Questo è un’altra lezione impartita dal microscopico virus. Cose che ci sembravano scontate fino a ieri, oggi assumono un peso e un’importanza differente.
LE REAZIONI ALL EVENTO COVID
In questo periodo in molti hanno ricontattato telefonicamente, attraverso messaggi o video chiamate persone che non sentivano da anni. Le chat di gruppi di whatsapp che erano praticamente dormienti da anni improvvisamente hanno ripreso vita e ci siamo trovati a chiacchierare con persone che non ricordavamo neppure di conoscere. Ci ritroviamo a parlare dalla finestra con quel vicino che fino a ieri neppure salutavamo. Altri, invece, al contrario, si autolimitano nel cercare contatti e rischiano di scivolare silenziosamente, nella chiusura e nella solitudine. Si tratta probabilmente di persone, molte a dire il vero, che avevano già in se dei nuclei relazionali problematici, che l’evento traumatico ha slatentizzato e/o acuito.
In questo senso, la pandemia può rischiare di rendere ancora più isolate e marginalizzate persone e nuclei familiari che già, per diversi motivi (di origine psicologica e sociale) si trovavano e si percepivano ai margini.
Come aiutarsi
La psicologia clinica ci insegna che, in eventi così profondi e drammatici, isolarsi, rinchiudersi in sé stessi solitamente non è una buona idea, non è affatto una strategia sana e non porta a nulla di buono. Questo evento, questa situazione in generale è assimilabile ad un evento traumatico.
L’evento traumatico ha la caratteristica di essere qualcosa di inaspettato, improvviso e che va oltre la capacità di elaborazione della persona che ne fa esperienza. La pandemia e le conseguenze che porta con se ha alcune caratteristiche di un evento traumatico classico, come ad esempio un terremoto, un’inondazione, un’alluvione ecc, ma anche dei fattori tuttavia specifici. Un primo fattore è quello dell’indeterminatezza che accumuna alcuni fra gli eventi traumatici ovvero il non sapere quanto tempo durerà. Non ci troviamo nella condizione di raccogliere le macerie, noi stiamo ancora nel momento in cui la terra trema, lo siamo da più di un mese e lo saremo ancora per un tempo indefinito. Per quanto tempo tutto questo continuerà, non si sa, e questo è un elemento che fa di questa esperienza traumatizzante, una esposizione al trauma prolungata. Questo è forse l’aspetto davvero peculiare di una epidemia.
L’esposizione è prolungata nel tempo e graduale. La situazione è peggiorata giorno dopo giorno. Non è avvenuto come ad esempio avviene in un terremoto vedere persone sconvolte sotto shock dopo la prima nottata. È un processo molto
graduale e non lineare nel senso che ci sono momenti in cui la situazione sembra migliorare e poi di nuovo peggiorare. Proprio tutto questo fa dire agli esperti che questo tipo di esposizione produrrà degli effetti anche tempo dopo, dopo che la situazione tornerà ad essere maggiormente sotto controllo dal punto di vista sanitario.
Ormai ci è chiaro che le cose cambieranno ma non riusciamo a immaginarci come. Sappiamo che ci sarà una forte crisi economica ma ne prefiguriamo solamente i contorni in modo sfogato. In che modo ci coinvolgerà direttamente e in che misura? Sono costi sociali importanti che andranno conteggiati.
Allora se è un evento traumatico, una buona idea è non restare soli, è riuscire a mantenere i rapporti con gli altri, condividere. Non per parlare del trauma o non necessariamente di questo ma per coltivare rapporti, condividere il nostro tempo con i nostri cari e con gli amici. Si, via chat, via video chiamate insomma a distanza. Non rinunciando a coltivare idee e progetti. Ciò che potrà salvarci è la nostra capacità di vivere il presente ma progettando il domani.
Prendere il controllo
Per queste ragioni dovremmo sforzarci, per la nostra salute di rendere questo tempo prezioso e cercare di prendere il controllo di questo tempo.
L’essere umano è a proprio agio quando sperimenta un sentimento di sicurezza.
La sicurezza è la sensazione di essere al sicuro. Ci sentiamo al sicuro quando percepiamo che abbiamo qualche controllo sulla nostra vita, sul nostro ambiente, sulle cose che ci accadono. Questa situazione così traumatizzante rischia al contrario di farci sentire in balia di qualcosa di altro da noi, di farci sperimentare che non abbiamo alcun controllo delle nostre vite. Di farci sentire in balia della corrente in una realtà fatta di incertezze e di pericolo che ci viene imposta dall’esterno e da condizioni particolari. Per riuscire ad affrontare il tutto in modo più sano ed evolutivo possibile dobbiamo cercare di controllare ciò che possiamo e non attraversare tutto questo in modo passivo.
Bisogna pensare a cose piccole, possibili. Ciò che ad esempio, possiamo davvero controllare nella nostra individualità sono i nostri comportamenti e adottare tutte quelle azioni che ad esempio limitano la possibilità del contagio. Essere consapevoli di questo abbassa i livelli di ansia e di angoscia.
Più che mai oggi allora, dobbiamo cercare quindi, di controllare ciò che possiamo, diventare attivi o meglio proattivi. Usare tecniche di “problem solving”, gestire il nostro tempo in modo organizzato. Porci degli obiettivi. È importante non essere passivi. Non è semplice ma si può fare, magari con l’aiuto di qualcuno.
Diventa allora importante organizzare le giornate scandite da impegni personali e familiari, dedicare del tempo a se stessi, studiare, leggere, scrivere, giocare con i propri figli o parlare con loro. Noi essere umani siamo esseri abitudinari, amiamo le cose prevedibili, conosciute. Per questo sono così importanti i rituali, le abitudini. In loro presenza la nostra mente funziona meglio. Questo è evidente nei bambini che amano così tanto le cose conosciute che i rituali spesso si trasformano in riti. Dobbiamo rendere le nostre giornate come se, come se tutto fosse normale, come se tutto questo è
una parentesi, come se tutto questo fosse un’opportunità. Darsi tempi, abitudini, un’organizzazione giornaliera scandita da attività che siano generative, creative che ci migliorano. Non arrenderci alla pigrizia, al pessimismo, non correre a rinchiuderci in un angolo remoto.
Non serve stare lì a sentire per la millesima volta il telegiornale, l’ennesima trasmissione televisiva. Il bombardamento mediatico non serve ma al contrario genera ansia e angoscia. Informarsi una volta al giorno è più che sufficiente e possibilmente farlo da siti e canali ufficiali. Possiamo impiegare il nostro tempo in modo migliore. Tutto questo non farà ovviamente sparire i problemi, non risolverà la crisi economica e non permetterà di far rincontrare i nostri figli con i loro amati nonni.
No, non serve a questo purtroppo. Serve a fare in modo di non essere schiacciati da tutto questo, serve ad affrontare tutto
questo con un livello di salute migliore. Il problema da affrontare è grande e nessuno ha il potere di farlo svanire, ma come ogni difficoltà sarà affrontata meglio se le nostre capacità saranno intatte e ben funzionanti.
Bisogna pensare che tutto questo finirà e che, in un modo o in un altro, tornerà una certa normalità che sarà forse diversa da prima ma le cose miglioreranno e presto. Bisogna sforzarsi di pensare al dopo e come diciamo ai bambini dobbiamo dire anche a noi stessi: non subito, non ora ma poi alla fine andrà tutto bene!
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