Cookie Policy La diagnosi in età evolutiva - Psicologo Psicoterapeuta Igor Siciliano

Nella mia attività professionale mi capita di incontrare genitori preoccupati per alcuni comportamenti dei figli.

Si vuole far riferimento qui a quei disturbi dove è evidente una parte emotiva e relazionale e non capacità specifiche.

A volte sono le maestre, altre volte gli istruttori sportivi o ancora un’amica, a mettere in evidenza alcuni  comportamenti “particolari” del  bambino. Spesso i genitori si accorgono da soli delle difficoltà del figlio, ma, dopo una segnalazione, assumono una dimensione esplicita, che sembra renderle più evidenti. Sempre più spesso, in queste occasioni, si ricorre ad uno specialista per cercare una diagnosi, capace di inquadrare clinicamente i bambini/ragazzi con comportamenti difficili o particolari: una definizione che sia in grado di spiegare la situazione. Dal canto suo, l’ambito clinico si è adoperato per mettere a punto una definizione per ogni comportamento: disturbo dell’attenzione, comportamento iperattivo, depressione in età evolutiva, disturbo oppositivo etc.

Un dato risalta agli occhi in Italia si fanno più diagnosi in percentuale che in altri paesi.

Nei casi in cui non sia possibile inquadrare un comportamento in una specifica definizione di solito si utilizza “disturbo non meglio specificato” o disturbo generalizzato dello sviluppo”. Questo è sicuramente dovuto all’avanzamento delle conoscenze riguardo lo sviluppo “sano” o “patologico” e l’aumentata attenzione che oggi si ha verso lo sviluppo dei bambini. Tuttavia se oggi le conoscenze riguardo questo argomento sono sicuramente di gran lunga maggiori e più precise permettendo così interventi di maggiore efficacia non sempre una diagnosi può avere un effetto benefico. In clinica si parla infatti di effetto iatrogeno della diagnosi.

Cosa ci dice una diagnosi di deficit dell’attenzione o di disturbo oppositivo o ancora di iperattività? E quali effetti ha sul bambino e sui familiari?

I test che vengono utilizzati per effettuare tali diagnosi sono strutturati con prove che indagano l’area interessata  – ad esempio quella dell’attenzione- attraverso esercizi e prove di memoria, di concentrazione su un compito, e così via. I test per misurare l’iperattività chiedono direttamente al bambino, e/o ai genitori, di descrivere e valutare il comportamento attraverso punteggi, o propongono esercizi mirati a valutare le capacità di controllo dell’impulsività, e cosi via.

I punteggi ottenuti vengono messi in relazione al bambino “normativo” cioè ai punteggi medi dei bambini di pari età. In sintesi, dopo aver partecipato (e pagato) a delle sedute diagnostiche –dedicate prevalentemente alla somministrazione di test – i genitori sapranno se e di quanto il loro bambino si discosta dalla media dei suoi coetanei. Ma quello che non sapranno è il perché  il bambino ha quel comportamento o quella specifica difficoltà.

I test si limitano a descrivere una sintomatologia, registrano una difficoltà, ma non ne spiegano né  la causa né  tanto meno la soluzione: come  un termometro che misura la febbre, non ci dice perché la temperatura è salita, i test sottolineano la presenza di un comportamento, ma non ci dicono nulla di più.

Non esistono ricerche sufficientemente attendibili, capaci di dimostrare che nei disturbi caratteristici dell’età evolutiva (parlo di deficit dell’attenzione, iperattività, disturbi d’ansia, comportamenti oppositivi) siano implicati aspetti neurologici o genetici. Allo stesso tempo, la tendenza sempre più incalzante a ricorrere ad una diagnosi che definisca e “incaselli” una evidente difficoltà in un bambino, porta sempre più sullo sfondo il desiderio e la capacità di vedere i comportamenti dei bambini come comportamenti complessi e dotati di senso. Quello a cui si sta rinunciando, in questa “corsa alla diagnosi”, è la possibilità di comprendere i bambini nella loro unicità, rinunciando allo sforzo di guardare il mondo attraverso i loro occhi. Ma se gli operatori che si occupano di età evolutiva rinunciano a questo, rinunciano anche alla possibilità di aiutare quei bambini che mostrano delle difficoltà comportamentali, affettive o psicologiche e, con loro, i loro familiari.

Consiglio, quindi, di fare sempre molta attenzione prima di proporre un percorso diagnostico in presenza di segnalazioni di difficoltà in un bambino: rinunciando ad un tempo di osservazione e comprensione, si corre il rischio di fornire al bambino un’”etichetta” che risulterà più gravosa degli eventuali supporti che conseguiranno alla diagnosi.

Quando un bambino mostra difficoltà comportamentali o emotive è sempre importante un lavoro preventivo in cui sono coinvolte le figure significative disponibili, volto a conoscere e a comprendere il significato che ogni specifica difficoltà porta con sé, che permetta di attivare e mettere a frutto le risorse interne del bambino e della sua famiglia.